Di fronte a tragedie come quella di Morosini si tende a dire che non ci sono parole. E invece l'inquietante frequenza con cui, negli ultimi anni, la morte si è affacciata sui campi sportivi impone di trovarle, le parole. Intanto c'è da dare una risposta all'incredulità che si fa strada di fronte a tanti episodi (alcuni fortunatamente anche non luttuosi, come nel caso di Cassano). E' comprensibile che ci si stupisca di come atleti professionisti supercontrollati restino folgorati sul campo, nell'età della massima efficienza fisica. Ma gli specialisti ci hanno spiegato da tempo che non tutto può essere svelato dai moltissimi test medici preventivi. Perché molte malformazioni genetiche non affiorano se non in seguito a indagini complicate, sofisticate e, sovente, invasive. Sono lì, nascoste e silenti, fino al momento di deflagrare.
In casi come questi, dunque, la colpa non pare attribuibile a un deficit di prevenzione. Proprio per casi silenti e maligni come questi, dunque, diventa ancora più importante il tema dell'efficacia del pronto intervento di soccorso. E qui s'impone, con urgenza non più procrastinabile, il tema dell'obbligatorietà dell' utilizzazione del defibrillatore in tutti gli impianti sportivi (non solo in serie A e non solo in ambito professionistico). Un apparecchio semplice, poco costoso, attivabile anche da personale non medico, tramite un percorso guidato e ormai contenuto anche in dimensioni portatili. Molti grandi stadi ne sono già forniti (l'emergenza, oltretutto, può riguardare anche uno spettatore). Tutti gli impianti ad ogni livello devono, obbligatoriamente, dotarsene. Non è accettabile che ci si preoccupi, ad esempio, degli standard di illuminazione degli stadi per consentire riprese televisive adeguate, e non ci si preoccupi altrettanto di come salvare la vita di attori e spettatori. Ai calciatori e al loro sindacato, che scioperarono in agosto facendo infuriare mezza Italia per temi opinabili legati al contratto collettivo, vorremmo dire che se scioperassero per un tema così avrebbero invece tutta l'Italia dalla loro parte. La speranza è che l'ennesima tragedia (in campo mondiale) imponga di affrontare subito quella che appare ormai un'emergenza.
C'è stato perfino chi ha contestato la decisione di sospendere tutti i campionati in segno di lutto. Questo è il mondo con cui ci tocca interagire. Le difficoltà che adesso ci saranno per recuperare questa giornata, in una fase cruciale del campionato, ci riportano, indirettamente, al tema della prevenzione. Perché se ogni partita da recuperare rappresenta un problema, in un calendario affollato ai limiti della capienza, è evidente che si gioca troppo. E se si gioca troppo, l'usura e la frequenza di traumi s'intensificano. A livello preventivo, non medico stavolta, ma organizzativo, non è più rinviabile perciò nemmeno la riforma dei campionati. Troppe squadre, troppe partite, troppo stress, troppi infortuni. Morosini non è morto di questo, e le indagini s'incaricheranno di stabilire la natura del male che l'ha ucciso. Ma impostare stagioni agonistiche che non siano "tirate" al limite della sopportazione diventa un dovere. Almeno per sgombrare il campo e la coscienza da ogni possibile rimorso.
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